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Milano al tempo del Coronavirus

Ve lo ricordate? Nel giro di poco le nostre metropoli si erano svuotate, come in un film catastrofico. Del resto, il Covid-19 distruttivo lo è stato veramente. Viaggio surreale in una Milano deserta, dove luoghi perennemente affollati, anche di notte, sembrano salotti in un negozio di arredamento chiuso per malattia

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Ricordate l’angosciante film di Hitchkock? Piazza Duomo a Milano, in questi giorni, è in mano ai piccioni. Ma non ci sono più i turisti a nutrirli. Ci viene in mente il racconto “Beati i mansueti” di Gerald Marcus Glaskin del ‘74: le pecore australiane, esasperate dalla siccità, diventano carnivore e attaccano gli umani

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Ve lo ricordate? Ad inizio marzo 2020, con il primo lockdown imposto dal governo Conte per far fronte alla pandemia di Covid-19, nel giro di poco le nostre metropoli si erano svuotate, come in un film catastrofico. Del resto, il Covid distruttivo lo è stato veramente. A quattro anni di distanza ripercorriamo ora un viaggio surreale in una Milano deserta, dove luoghi perennemente affollati, anche di notte, sembravano salotti in un negozio di arredamento chiuso per malattia.

Tragitto casa-lavoro, con certificazione regolare. Sono in sella alla piccola Brixton Felsberg 125, motina che già mi piaceva prima di andare all’Altes Elefantentreffen e che adesso adoro, perché ho diviso con lei quella bella esperienza. Mi fermano i carabinieri, vogliono sapere perché sono in giro e la mia spiegazione li soddisfa, ma uno di loro mi spara un “Vada pure, però la sua moto fa schifo”. “Perché?” domando basito. “Io giro in pista con le mille, quelle sono vere moto, la sua no”. E se ne va. La cosa mi colpisce perché, nonostante la pandemia ci abbia sconvolto la vita e ci stia mandando in panico, evidentemente non è ancora riuscita a seppellire l’animo strafottente di noi motociclisti, quelli delle sfide alla Joe Bar “piscio sui pomponi e sui cilindri dispari”. E io me ne torno a casa, guidando per queste strade follemente deserte.

Non eravamo minimamente preparati. Fin da piccoli siamo affascinati dai film e dai libri catastrofici, quelli in cui un solo uomo gira per una città abbandonata a causa di un’epidemia letale. O di una guerra, o dell’inquinamento. L’ultimo uomo sulla terra, The road, Contagion, Io sono leggenda, Walking Dead, Wall-E, 28 giorni dopo, The last days, Virus letale, L’Esercito delle 12 scimmie sono i primi titoli che mi vengono in mente. Ci sono anche le prese in giro, come Party Rock Anthem, il video dei LMFAO che ha lanciato in Italia il ballo Melbourne Shuffle. Fanno parte della fantasia, oppure sono reali, ma lontani da noi, come l’evacuazione di Prypiat a seguito del disastro di Chernobyl. Siamo anche abituati a sapere che esistono le epidemie letali, sia antiche (la peste del Boccaccio e quella del Manzoni, la spagnola del 19181920, la pandemia di Hong Kong del ‘68), sia lontane da noi, come l’ebola. Ero ragazzino quando sentivo il telegiornale parlare del colera in Campania, Puglia e Sardegna, nel ‘73: ricordo i toni allarmistici, ma la malattia venne fermata dal vaccino. Si ammalarono in 278 e morirono in 24. Con le successive epidemie (il coronavirus Sars CoVs del 2002, la peste aviaria del 2005) abbiamo capito che nascono sempre in posti lontanissimi, Cina soprattutto, e che possono arrivare anche da noi, ma in forma ridotta, prima di venire fermate. La frase che si sente dire spesso è: “Tranquilli, muore più gente con la normale influenza”. Anche con questo coronavirus Covid-19 sembrava che le cose stessero andando così. A fine gennaio si leggeva che a Wuhan, in Cina, da dove era partito, c’erano già molti morti… ma era laggiù. Manco sapevo che esistesse una città chiamata Wuhan! Sono ignorantissimo, lo so: e dire che stiamo parlando di una megalopoli da undici milioni di abitanti.

Tra il 13 e il 16 febbraio giravo libero e felice in moto tra Svizzera, Francia e Germania per andare all’Altes Elefantentreffen. Adesso che sono forzatamente chiuso in casa per colpa della pandemia, mi sembra fantascienza. Guidavo felice, mi divertivo. Proprio in quel week end Mattia, 38enne di Codogno (LO), correva una maratona e stava benissimo. Quattro giorni dopo, invece, veniva dichiarato il primo europeo infetto dal nuovo virus. Nessuno ancora sapeva che in realtà tale primato spettava alla Germania, fin da metà gennaio: ma le autorità teutoniche avevano deciso di tenere tutto nascosto. Dal 20 febbraio è precipitato tutto, come ben sapete. L’annuncio che Codogno, Casalpusterlengo ed altri paesini limitrofi diventavano zona rossa è stato sconvolgente. Zona rossa? Non entri e non esci, come dopo un terremoto? Incredibile. Il 22 febbraio, quindi appena due giorni dopo l’annuncio, eravamo già in paranoia, ma in moto ci andavamo senza alcuna remora psicologica. Sono andato ad una mostra sui robot a Milano Bicocca (lacittadeirobot.com) domandandomi se non fosse pericoloso. C’era un sacco di gente, ma il giorno dopo era già stata chiusa, al pari di tutte le altre mostre. Il 23 c’è stato il famoso assalto ai supermercati, decisamente prematuro, che ha fatto pensare ai film catastrofici di cui parlavo all’inizio, e che ci ha fatto scoprire l’odio degli italiani per le penne lisce e le farfalle. Nel frattempo il virus dilagava per tutta la Lombardia. Il 24 febbraio Luigi Corrù, mitico inventore delle gare della serie Sette Guadi, compiva 60 anni ed ha organizzato una festa nel bar che possiede nel suo paese, a Cavenago d’Adda, ad appena 13 km in linea d’aria dalla zona rossa. Nella chat creata per l’occasione, gli invitati erano divisi tra gli spaventati (“Non posso rischiare di infettare la mia famiglia per una festa”), gli spavaldi (“Fa più danni l’influenza, cosa volete che sia”) e i fatalisti (“Ormai il virus è ovunque, tanto vale andare alla festa”). A stroncare l’evento ci ha pensato l’ordinanza che obbligava i bar a chiudere alle 18. Ordinanza in seguito revocata, perché il danno economico era grosso e, ancora, sembrava normale andare la sera nei bar e nei ristoranti. Anche io lo facevo. In quei giorni abbiamo cominciato a capire che non era una semplice influenza, però facevamo le solite cose: andare al lavoro, andare in pizzeria, andare a sciare, andare alle mostre e, soprattutto, andare in moto, sia per diletto, sia per fare servizi per Motociclismo: prove, turismo, presentazioni con giornalisti di tutta Europa. Poi è arrivata la cancellazione di tutti gli eventi, anche a tema motociclistico. Qualcuno resisteva, come lo staff della Fiera del Cicloturismo, che prima ci mandava il comunicato “I tre motivi per cui l’organizzeremo lo stesso” e poi, due giorni dopo, la cancellava.

Essendo un’epidemia da tempi moderni, è stata seguita sui social, con video e meme ironici, alcuni dei quali veramente geniali. Un amico ha detto che questa pandemia ha scatenato “la più grande ondata di ironia dai tempi della peste del Boccaccio, nel Trecento”. Si è iniziato col prendere in giro il lodigiano, proseguendo con le battute sulle persone che scoreggiano per coprire gli starnuti; mitici i video con gli scaffali vuoti nei supermercati, ma con certi tipi di pasta intoccati. Siamo arrivati ai giorni nostri, con lo smart working e i flash mob dai balconi. Ovviamente anche i motociclisti si sono scatenati e il tema principale era, ed è tuttora, l’astinenza da motocicletta, che porta la gente ad organizzare Dakar tra soggiorno e camera da letto o a vestirsi da moto dalla testa ai piedi per guidare il falciaerba. Siamo caduti in tentazione anche noi, realizzando il video di lancio del contest #IoRestoAiBox, dove tutti i redattori di Motociclismo interpretano, ciascuno a proprio modo, lo stato di “fermo”. Sembra una bestemmia invitare i lettori a non andare in moto, ma risale al periodo successivo al 7 marzo, in cui è apparso drammaticamente evidente che gli ospedali erano al collasso, che non riuscivano a stare dietro ai malati e aggiungere a questi gente che si è fratturata cadendo in moto sarebbe stato troppo. A fine febbraio si è creato un razzismo in stile matrioska: a Milano avevamo il terrore dei lodigiani, ma tutto il Nord Italia temeva i lombardi. Nel Centro e nel Sud Italia ce l’avevano con i settentrionali: razzismo a flusso invertito. Ma in Europa, anzi in tutto il Mondo, gli italiani erano gli appestati da evitare. Abbiamo avuto amici e collaboratori che si sono ritrovati rinchiusi in alberghi di Abu Dhabi e del Kazakistan solo perché erano italiani, senza che fossero malati. Giornalisti idioti di tutto il Mondo ci hanno bersagliato con ironia cattiva. Scagli la prima pietra chi era immune, però: l’Austria ha chiuso le frontiere con noi, mentre teneva aperti gli impianti a Ischgl nonostante avesse scoperto che c’era un focolaio del virus. È così che il Covid-19 è arrivato in Islanda.

Tutto è precipitato perché in Italia il numero dei contagiati e quello dei deceduti ha subito un’impennata verticale, che ci ha portati in testa alla classifica dei Paesi messi peggio. Per questo le cose sono cambiate così in fretta, cogliendoci ogni volta di sorpresa. Non dimenticherò mai la sciata che mi sono fatto il 7 marzo, a Sestriere, invitato da un amico che è riuscito a non farsi vedere per tutto il week end. Ci siamo resi conto che noi milanesi eravamo veramente considerati degli untori, anche perché è arrivato il comunicato che tutta la Lombardia era diventata zona rossa. Un’intera regione zona rossa? Mai successo prima. Nello stesso tempo arrivavano notizie di ospedali al collasso: i malati aumentavano sempre di più, i medici si ammalavano a loro volta, la terapia intensiva non era più disponibile per tutti e l’età delle morti è scesa sotto ai 50 anni. Farsi male sciando, pedalando o andando in moto è diventata una cosa da evitare assolutamente. Eppure, fino a quel momento, ci sembravano attività da praticare senza problemi. Nel giro di due giorni è toccato a tutta l’Italia diventare zona rossa. Abbiamo iniziato a sentirci come nel videogioco Fortnite quando si è circondati dalla Tempesta: sai che il virus si avvicina sempre di più, colpendo i paesi e i quartieri vicini al tuo, o i colleghi di lavoro. Nella nostra redazione prima ha colpito genitori e partner dei colleghi (con esiti anche mortali) e poi un collega. Ci ha lasciati pure Eugenio Inglese, che provava le moto per noi negli anni 80 e che io leggevo da ragazzino. A quel punto tutta l’Italia è andata a casa a lavorare, o a fare ferie forzate e le città si sono completamente svuotate. O meglio, le loro strade. Questo pezzo lo sto scrivendo in mutande (a pois).

Attualmente non abbiamo grandi idee riguardo ai servizi di turismo, ma un giro a Milano non potevamo non farlo. Già: la Milano Fantasma. Da una parte questa cosa è una tragedia, sia per l’economia, sia per la salute mentale di una città che vive di aperitivi; dall’altra parte… Non uccidetemi, ma non posso resistere al fascino di vedere la mia amata città come se fosse il set di Io sono leggenda. Una metropoli senza le persone, senza auto in giro, con i monumenti visibili nel pieno della loro bellezza, ha un fascino perverso, è inutile fare gli ipocriti. Avete visto su internet le impressionanti foto di Atlanta deserta, che è identica alla scena più famosa di Walking Dead? Per cui ho sentito la pulsione di andare in centro, di scattare foto, di immortalare e trasmettere ai posteri una fase cruciale della storia di Milano. Ovviamente in redazione non tutti erano d’accordo con questa idea, benché fossi esentato dall’ordinanza “Tutti a casa”. Il rischio non era quello di contrarre il virus, dato che in giro non avrei trovato nessuno, ma cadere in moto. Non ero neanche quello messo peggio, dato che Fabio Meloni doveva andare a provare la Ducati Streetfighter: io potevo permettermi di andare piano, lui meno. In realtà i rischi maggiori li ho presi andando dalla mia dottoressa a prendere delle ricette per il cuore: in teoria avrei dovuto prenderle al volo, in pratica la cosa è durata 11 minuti, passati insieme ad altre tre persone nella stessa stanza; e nessuno, dottoressa compresa, aveva guanti o mascherina.

Parto da casa mia (Cisliano, un paesello di periferia) e arrivo in Piazza Piemonte, che ha due palazzi bellissimi disegnati da Mario Borgato: nel 1923, 9 piani bastavano per parlare di “grattacielo”. In vetta ci sono quelle che, per me, sono le mansarde più belle di Milano, simili a castelli. Nella stessa piazza c’è il Teatro Nazionale, anche lui opera di Borgato. Nelle vie vicine ci sono librerie, negozi di elettronica, pizzerie, ristoranti: è una zona sempre intasata di traffico, auto in strada e gente sui marciapiedi. Adesso il pilota di una Panigale potrebbe farci pieghe da ginocchio per terra, non c’è nessuno… Non è la prima volta che vedo la mia città deserta. Lo è di notte e lo è in agosto, anche se solo in periferia. Ma fa tutt’altro effetto vederla così in pieno giorno, in settimana, percorrendo liberamente vie che sono sempre intasate di auto. Mi viene in mente il nevone del 1985. È come nei film, sembra che siano morti tutti. I pochissimi che vedo in giro sono tutti dai 40 anni in su. L’unico adolescente che vedrò in tutta la giornata è mio figlio tredicenne, chiuso in casa, attaccato al pc a seguire lezioni a distanza, con i compagni che si divertono a “mutare” la prof. Sono numerose le zone che si prestano a una guida divertente in moto, in assenza di traffico: i tornanti di via Curie, i curvoni del Cimitero Monumentale, la esse di Piazza Bande Nere, Piazza Piemonte e milioni di altri posti. Sembra che ci sia solo io, la tentazione è di andare a manetta, invece vado piano, non voglio sdraiarmi. Ogni tanto però passa un’auto con il rosso e fa le curve con le gomme che urlano. Sembra di essere in un circuito… Ho l’autocertificazione e il tesserino da giornalista. Incontro tante auto della Polizia, camion 4x4 militari, ambulanze che vanno a tavoletta con la sirena urlante e fattorini in bicicletta che portano il cibo, tipo Glovo. Quando ti fermano, militari e poliziotti tendono a non guardare il documento di autocertificazione, per evitare contatti e non avvicinarsi troppo: preferiscono ascoltare la spiegazione, come ad un esame. Andando verso CityLife, una signora cammina in mezzo alla strada, con la mascherina, senza alcun timore di venire “arrotata”. CityLife è il quartiere subentrato alla vecchia fiera campionaria: ha un centro commerciale, tre grattacieli visibili dalla campagna, condomini di lusso, fontane e spazi verdi. Si tratta di uno dei luoghi per eccellenza dello struscio milanese, è sempre affollato. Mi piace attraversarlo in bicicletta, anche se devo sempre slalomare tra i pedoni. Adesso è un deserto, con i negozi e i ristoranti chiusi. Ah no, c’è un signore che porta il cane. Peck è chiuso, eppure vende alimentari, sia pure di lusso. Attraverso Corso Sempione, che è una delle arterie principali di Milano. Adesso sembra una pista per gare di accelerazione di dragster e affini…

Ci ho vissuto fino al 2010. I cinesi ci fanno sempre gli affari loro, immagino che il quartiere sarà brulicante di vita come al solito… Invece no: tutto chiuso, nessuno in giro, qualcuno passa con la mascherina. Trovo molte persone nella piazza sopraelevata di Gae Aulenti, dove s’erge il più alto edificio italiano, la Torre Unicredit da 231 m e dove Fantic ci ha fatto provare il suo Issimo, qualche era geologica fa (Motociclismo 12-2019). Insieme al sottostante Corso Como questa è una delle zone più calde della città, con un via vai di giovani fino a notte fonda, tanto che, nel 2014, ci avevano organizzato un torneo notturno con calciobalilla lunghi 10 m, per squadre da dieci persone. Adesso non ci sarebbe nessuno, se non ci fosse un supermercato Esselunga. Vengono fatte entrare poche persone alla volta e quelle che stanno fuori stanno lontane le une dalle altre. In Gae Aulenti la coda è lunga perciò 250 metri (inizia quasi sul ponte sopra via Melchiorre Gioia). Passo quindi a zone antiche, solitamente sovraffollate di turisti in ogni giorno dell’anno. Qui c’è ancora meno gente. Il Castello Sforzesco è spettrale. La Scala sembra il plastico di un teatro piazzato ai bordi di un circuito di velocità. Ma il luogo che più fa capire che sta succedendo qualcosa di epocale è il Duomo. La Galleria Vittorio Emanuele, che venne realizzata nella seconda metà dell’Ottocento per collegare in maniera diretta Piazza Duomo a Piazza Scala, demolendo la vecchia città medioevale, è vuota, mentre la Piazza sembra un dipinto di De Chirico in una società impazzita dove i piccioni hanno preso il potere. E siccome non ci sono le solite migliaia di persone che danno loro il cibo, questo regno aviario è destinato a durare poco. Sperando che quello umano, nel frattempo, non si estingua.

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